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Parola agli esperti e ricercatori

Giovanni Isoldi: la cannabis ed i limiti dell’industria farmaceutica

farmacologia cannabis

“Con la cannabis l’approccio tradizionale dell’industria farmaceutica non sarà sufficiente. Per sfruttarne le potenzialità serviranno nuovi modelli e nuove tecnologie.” Intervista a Giovanni Isoldi, Docente di fitochimica al master di Fitoterapia dell’Università di Siena.

 

Professor Isoldi cominciamo da come si differenzia un’estrazione di cannabis fatta in casa da una di grado farmaceutico?

Come per il cibo, un conto è cucinare per sé, un conto è somministrarlo a qualcuno. Grado farmaceutico, quindi, significa elevato livello di autocontrollo. Dato che si ha a che fare con pazienti che possono essere deboli o compromessi dal punto di vista immunitario, è indispensabile controllare l’inquinamento dell’aria e del prodotto, il suo tenore in principi attivi ed eventuali altre impurezze. Inoltre, si dovranno utilizzare impianti e strumentazioni per la sicurezza dell’operatore, tutti aspetti molto difficili da controllare in un ambiente domestico. La differenza la fanno gli ambienti, le procedure ed i controlli di qualità. Questi ultimi, in particolare, permettono non solo di controllare la conformità di un prodotto, ma anche di raccogliere dati ed analizzarli. E questo accelera enormemente la capacità di correggersi, e quindi di migliorarsi, a livello di ricerca industriale. D’altra parte non dobbiamo scordare che il rischio di un alto livello di standardizzazione nelle procedure è poi quello di non stare al passo con i tempi, perché il mercato, oggi, ci chiede ricerca e innovazione, soprattutto in una industria veloce come quella della cannabis.

La farmacologia tradizionale come considera la cannabis?

Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro e chiederci: com’è considerata una pianta medicinale nell’industria farmaceutica? La risposta è come qualcosa di estremamente difficile da standardizzare e brevettare. Per questo motivo, nel farmaceutico si preferiscono i farmaci monomolecolari: principi attivi isolati e quindi più semplici da gestire, rispetto ad una pianta, nel complesso iter farmaceutico. Esistono molti farmaci a base di piante (Permixon, Kaloba, Veregen, Essaven) ma si tratta di un mercato relativamente piccolo. Ora, la cannabis rompe questo schema farmaceutico perché è una pianta, ma con un mercato molto promettente. Non solo, è una pianta con un’incredibile variabilità genetica. E come se non bastasse, è stupefacente. Ma può anche non esserlo. E’ chiaro che tutto questo impone nuovi paradigmi, un nuovo modo di pensare e nuove strategie terapeutiche. La cannabis è incredibilmente attuale perché è farmaco ma anche biodiversità, come noi siamo biodiversità. Non esagero a dire che nell’industria  farmaceutica la cannabis fa paura, così come fa paura in molti altri settori, a chi è aggrappato al vecchio e non vede il nuovo che avanza.

Considerando che la farmacologia tradizionale, sulla quale poggia l’industria farmaceutica, si basa sul principio che una molecola ottiene un determinato effetto, quando pensiamo alla cannabis, le cui sinergie “intramolecolari” sono ancora tutte da vagliare, che sfide promette questa pianta per la medicina dei prossimi decenni?

Non è una sfida da poco se si considera che la pianta di cannabis produce oltre 120 cannabinoidi con effetti diversi e 400 terpeni in grado di modulare tali effetti. La pianta è un sistema complesso, se lo si semplifica eccessivamente se ne perde il significato. Non è facile imbrigliare in un prodotto una pianta che cresce ovunque e che cambia costantemente. Un prodotto farmaceutico richiede ingenti investimenti, così se ad esempio l’azienda X investe un capitale su un prodotto con CBD/THC con un equilibrio dell’ 1:1, nessuno gli garantisce che il rapporto 2:1 o 75:1 non possa rappresentare una scelta terapeutica migliore, e quindi una fetta di mercato persa. E poi ci sono tutti gli altri cannabinoidi. Creare un medicinale a base di due di essi è come essere in mezzo ad un branco di cavalli selvaggi, e scegliere di puntare tutto su due di loro. E tutti gli altri? L’approccio dell’industria farmaceutica tradizionale, puramente razionale (ovvero basato sugli studi clinici) con la cannabis non basterà, sarà troppo lento, perché per sfruttare le potenzialità di questa pianta serviranno nuovi modelli e nuove tecnologie.

Quando afferma che l’approccio puramente razionale non sarà sufficiente, si riferisce al fatto che trattando un medicamento vegetale, come la cannabis, alla stregua di un farmaco tradizionale non se ne possa cogliere a pieno le potenzialità?

Esatto, ma non a livello di qualità del prodotto bensì a livello di mercato. Pensare di sperimentare le varie combinazioni di cannabinoidi e terpeni sulle varie patologie, seguendo le procedure dei farmaci tradizionali, è un processo estremamente lento, su una scala di tempi incompatibile con il mercato attuale. Nel pharma si parla molto dei big data e della raccolta informazioni sulla esperienza terapeutica del paziente. Credo che ci si debba strutturare per questo, guidando i pazienti nell’autosperimentazione senza lasciarsi intimorire troppo dai “pericoli” o dagli “effetti avversi” di una pianta che ha già dimostrato la sua bassa pericolosità. E’ ciò che già stanno facendo alcune aziende in Israele, dove sono all’avanguardia con la cannabis terapeutica. Alcune, come Tikun Olam non si fermano alla consegna del medicinale, anzi questo rappresenta solo l’inizio della raccolta dei dati e del monitoraggio dei pazienti. Il loro asset alla fine non sarà più il prodotto, ma i dati raccolti. Si tratta quindi di modelli basati su metadati e non sul classico approccio causa effetto. La tecnologia di supporto non manca, serve solo un cambio di prospettiva.

Attualmente in Italia sono commercializzate due medicine derivate dalla cannabis il Sativex e l’Epidiolex. Queste medicine si basano su cannabinoidi sintetici, quali? Con quali indicazioni terapeutiche?

GW, azienda pioniera della cannabis medicinale ha commercializzato Sativex nel 2013. Si tratta di una miscela 1:1 di CBD e THC come estratti naturali purificati, indicato nella sclerosi multipla per la spasticità muscolare. L’Epidiolex, invece, è cannabidiolo puro estratto da cannabis indicato nella epilessia infantile farmaco resistente da sindrome di Lennoux-Gastout Dravet o sclerosi tuberosa. Il punto importante è che adesso, con la riclassificazione della cannabis da parte delle Nazioni Unite la ricerca sulla cannabis avanzerà, e allora sarà possibile ampliarne enormemente le applicazioni terapeutiche. Quindi arriveranno molti farmaci e vedremo cosa funzionerà, senza dimenticare che l’ultima parola spetta ai pazienti.

Chi conosce la particolarità della cannabis in medicina afferma che i cannabinoidi sintetici abbiano un effetto terapeutico minore rispetto alla preparazione galenica, per quale motivo? 

Vorrei chiarire innanzitutto che un cannabinoide puro isolato dalla pianta sarà identico in tutto e per tutto al cannabinoide puro sintetico uscito da un impianto chimico. La differenza sarà nella parte di impurezze, infatti una sostanza pura al 99,9% ha fino allo 0.04 di impurezze che possono derivare da una pianta o, nel caso del sintetico, da solventi e intermedi di reazione chimica. Addirittura fino alla sentenza della corte di giustizia europea del 19 Novembre 2020, sembrava ormai assodato che la derivazione dalla pianta sancisse la caratteristica di stupefacente del CBD, pur non essendolo di per sé, lasciando fuori da tale classificazione il CBD di sintesi in palese contraddizione con un principio di naturalità. Tornando alla domanda, il tema è sempre quello della complessità e della sinergia. Se si vuole accedere al potenziale terapeutico di una pianta non la si può snaturare, iper semplificandola. Piuttosto occorre sfruttare la sinergia dei suoi costituenti. Per questo la tecnica di preparazione della cannabis deve mirare a snaturare meno possibile il fitocomplesso (insieme dei costituenti naturali nelle proporzioni presenti), pur standardizzandone il contenuto e rendendolo gradevole da assumere.

Una bella sfida per chi fa il suo mestiere..

Il compito non è certo facile se consideriamo che i delicati terpeni, cosi facilmente degradabili dalla temperatura convivono con i cannabinoidi acidi, che devono essere attivati termicamente, oltre che separati da sostanze cerose e clorofille dal sapore amaro. C’è ancora molto da fare e da sperimentare, per questo è importante che una normativa chiara definisca i confini del settore e gli permetta di evolversi. Sarebbe un peccato perdere come paese una simile risorsa economica, terapeutica e sostenibile.

 

Giovanni Isoldi è Docente di fitochimica al master di Fitoterapia dell’Università di Siena. A partire dal 2016 decide di occuparsi di cannabis chemistry, attraverso Materia Labs, il primo laboratorio analitico in Italia interamente dedicato alla canapa ed alle estrazioni.

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